Tumore al seno: ancora una sfida aperta?

Sono più di 1.3 milioni ogni anno le donne in tutto il mondo a cui viene diagnosticato un tumore al seno, rappresentando così la seconda forma più comune di tumore dopo quello al polmone. All’incirca il rischio di ammalarsi di tumore al seno ad un certo punto della propria vita per le donne è del 12%, ma questo rischio aumenta se c’è la familiarità. Infatti, mutazioni ereditarie dei geni BRCA1 e BRCA2 aumentano il rischio al 60% e 85% rispettivamente. Le varie campagne di sensibilizzazione hanno sortito i loro effetti e la percentuale di sopravvivenza a dieci anni è notevolmente migliorata negli ultimi decenni, passando dal 35% degli anni sessanta al 77% degli anni novanta. Nonostante tutto, ancora circa mezzo milione di donne muoiono ogni anno di questa malattia. Non tutti i tumori al seno sono però uguali, alcuni tipi sono meno pericolosi di altri, per questo motivo stabilire quali siano i peggiori in termini di prognosi è la vera sfida della ricerca. In generale i tumori negativi per tutti e tre i recettori che di solito si trovano nei tumori al seno sono i peggiori, in quanto i soliti farmaci chemioterapici non possono agire proprio per la mancanza dei recettori. Comunque anche per questi casi i ricercatori stanno strenuamente cercando di individuare altri “target” molecolari che potrebbero essere usati per la terapia. Attualmente la prognosi peggiore è riservata a quei tumori che si sono già diffusi ad altri siti al momento della diagnosi. Inoltre le cellule tumorali possono rimanere quiescenti, cioè “nascoste” per molto tempo prima di “risvegliarsi”, anche decenni dopo la prima terapia. Ciò significa che, nonostante in apparenza non ci sono più cellule tumorali dopo la terapia, alcune di queste cellule devono essere sopravvissute “nascoste” in uno stato non attivo. Ad un certo punto, anche anni e anni dopo possono riattivarsi e formare metastasi anche in quelle pazienti che sembravano essere guarite. Rimane ancora da chiarire come ciò sia possibile, cioè dove si nascondono queste cellule e perché si riattivino. Capire come faccia l’organismo a tenerle sotto controllo per 10-15 anni e cosa porti alla loro riattivazione sarebbe importante per mettere a punto nuove strategie terapeutiche. Quello che sappiamo è che queste cellule derivano dalla lesione primaria, dalla quale attraverso i vasi sanguigni direttamente o attraverso i linfonodi entrano in circolo diventando cellule tumorali circolanti e raggiungendo altri distretti corporei. Si pensa che il midollo osseo possa agire come riserva per questo tipo di cellule dormienti. Queste cellule comunque quando poi entrano in circolo non necessariamente formano metastasi, infatti solo se anche il distretto in cui si vengono a trovare è opportuno queste cellule si trasformano in metastasi. Secondo alcuni ricercatori più che dal midollo osseo le cellule dormienti che si risvegliano derivano dalla cellule tumorali circolanti. Prevenire questo tipo di metastasi potrebbe salvare milioni di vite, ma per ottenere progressi su questo fronte è necessario riprogrammare il modo di fare ricerca sui farmaci inibitori delle metastasi.

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